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Kalambay si racconta, dal primo ring clandestino in Zaire ad oggi: 'La boxe è tutta la mia vita'

Alì non ha gli occhi azzurri ma ha gli occhi puliti di chi non ha nulla da rimproverarsi. A Sumbu Patrizio Kalambay, che il 10 aprile spegnerà 58 candeline, nel corso di una carriera luminosa e tosta hanno affibbiato diversi “nickname”: il campione venuto da lontano, il Professore, per la sopraffina tecnica del suo pugilato, The King, per la sua grandezza, Alì, per la somiglianza con lo stile ed il modo di combattere del grande Cassius Clay alias Muhammad Alì.



Ed è proprio a questo che è più affezionato “perché – dice Kalambay – Alì era un grande, ha tracciato un solco indelebile nella storia della boxe ed ero innamorato del suo modo di combattere, di “danzare” sul ring senza farsi colpire”. Sumbu Kalambay con Alì non condivide solo il modo di boxare ma anche un carattere un po’ guascone, aperto e solare.





Kalambay si racconta con generosità, dagli anni dell’infanzia a Lumumbashi, nell’allora Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo, ad un presente che lo vede ancora pieno di entusiasmo e di vita. “Sono nato in una famiglia numerosa e felice; mio padre era ragioniere e mia madre, che oggi ha 79 anni, era una commerciante: non ci mancava nulla ed il pugilato l’ho iniziato a praticare per passione non per necessità”.





Kalambay ricorda l’adolescenza e svela un aneddoto sconosciuto. “Nella mia città si svolgevano incontri clandestini che andavo a vedere; un giorno l’organizzatore mi gettò sul ring senza neppure pesarmi e da allora da quel quadrato non sono più sceso, neppure ora che vado in palestra tre volte la settimana e mi diverto con gli amatori”.





La ferita della mancata partecipazione alle Olimpiadi di Mosca a causa del boicottaggio è rimarginata dal ricordo dell’approdo in Italia, ad Ancona. “Potevo andare in Belgio, in Portogallo, in Francia ma seguii il consiglio del mio connazionale Zora e lo raggiunsi ad Ancona. Ricordo con grande piacere il mio primo manager Sergio Cappanera ed anche Ennio Galeazzi, che vive a Falconara ed ha tagliato il traguardo delle 91 primavere, che sono stati al mio fianco e mi hanno aiutato ad inserirmi nel professionismo”.





Il primo incontro da “prof” in Italia, Kalambay lo disputa nel 1981 a Sant’Elpidio a Mare grazie all’organizzatore Bruno Cozzi, “che divenne mio amico – ricorda Sumbu - ed allestì anche l’incontro del mio addio al pugilato nel 1993”. Da quel momento Kalambay conseguì una serie di vittorie inequivocabili, molte per ko, ottenute contro pugili validi tra cui il campione americano Buster Dryton. Nel 1985 conquistò il titolo italiano a Caserta battendo De Marco e nel 1987 divenne campione d’Europa dei pesi medi a Londra quando surclassò Harold Graham.





Ma i momenti più fulgidi della sua carriera arrivarono prima il 13 ottobre 1987 quando a Livorno conquistò la corona mondiale WBA battendo il temibile picchiatore Iran Barkley e poi il 5 marzo 1988 a Pesaro quando, davanti a 5500 spettatori e contro ogni pronostico, firmò il suo capolavoro e divenne “The King”, spezzando i sogni del terribile Mike McCallum, confermandosi campione del mondo, titolo che difese positivamente contro Robbie Simms e Doug De Witt. Purtroppo però la quarta difesa del titolo a Las Vegas, il 25 marzo 1989, segnò la sconfitta più cocente per Kalambay: non vide partire il gancio di Michael Nunn ed andò al tappeto quando erano trascorsi appena 88 secondi dal gong iniziale.





Certi luoghi comuni dicono che sia stato un maestro di tecnica e di “danza” sul ring che però mancava della necessaria cattiveria e della giusta determinazione ma lui la pensa diversamente. “Sono falsità – dice Kalambay – Barkley e McCullom, che a detta di tutti erano autentici animali da combattimento, con me hanno perso: la verità è che lo sport è così, è fatto di vittorie e di sconfitte che bisogna accettare”.





E’ vero invece che la sua arte di boxare è rimasta nell’immaginario collettivo, negli occhi e nella mente degli appassionati del pugilato: la sua tecnica, il jab ed il gancio sinistro, il suo ballare sul ring quasi divertendosi hanno entusiasmato tifosi e sportivi. “Non ho nulla da rimproverarmi. La gente mi vuole bene, mi rispetta, molti mi applaudono ancora. Amo la boxe e sono un estimatore di pugili che facevano divertire la gente come Marvin Hagler, potente, completo, simpatico, Ray Sugar Leonard, Roberto “mani di pietra” Duran, Ray “bum bum” Mancini o come il “leggero” americano Howard Davis che ha vinto l’Olimpiade ma non ha mai vinto un Mondiale. Ho allenato grandi campioni come Michele Piccirillo e Paolo Vidoz, veri professionisti sul ring e veri uomini nella vita ed attualmente alleno mio nipote Karel Sandon ed il romano Giorgio Natalisi. Poi vado a divertirmi al Martins Club di Ancona con un gruppo di giovani amatori e seguo con attenzione la boxe dilettantistica: ci sono ottimi elementi a Jesi, Pesaro, Fermo e li ho visionati di recente in una riunione a Marotta. La boxe è stata la mia vita e continua ad esserlo ma con lo spirito giusto, quello degli sportivi veri”.





E Alì lo dice con gli occhi che gli brillano di quell’entusiasmo bambino che è ancora la sua forza.





Sumbu Kalambay è nato a Lumumbashi nell’attuale Repubblica Democratica del Congo, il 10 aprile 1956. Ha vissuto per molti anni a Chiaravalle ed oggi vive a Morro d’Alba dove è facile incontrarlo la domenica correre per le campagne con i suoi due cani. Ha tre figli, Patrick, 30 anni, affermato calciatore, Elisa, 25 e Beatrice, 17. A Chiaravalle, con due soci, era proprietario di un bar al parco 1° Maggio, che qualche mese fa, a causa di un incendio è andato completamente distrutto. Spera di poter riavviare l’attività, “anche se – dice - burocrazia e tasse rendono meno bella un’Italia stupenda che mi ha ‘adottato’ con affetto”. Attualmente allena professionisti e segue pugili dilettanti ed amatori.

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Gianluca Fenucci