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Fermo: Storie di ponti, belli e brutti, di libri e di riflessioni

Se ne stanno lì, muti, immobili, sbreccati, sdentati, amputati, in parte cadenti, assaliti dall'edera e dagli arbusti infestanti. E pure, hanno ancora un fascino e una loro malinconica attrazione. Richiamano e reclamano un'ultima attenzione! Chi non ha notato quel moncone di ponte che fiancheggia quello nuovo, e che, dalla piana della Mezzina, consentiva di salire a Montegranaro? Le sue arcate sull'Ete morto sono state dimezzate. Troppo stretto, troppo vecchio. È in abbandono. In attesa di crollo. Quel che resta accoglie brutte baracche in lamiera di cantieri ormai chiusi.

E chi non conosce quello che legava Monte San Pietrangeli a Monte San Giusto, anch'esso amputato dal tempo? E chi non scorge quelli della vecchia ferrovia dove il treno, sbuffante sul serio, ansimava verso Amandola?

Lo scrittore, drammaturgo e regista inglese di origine ceca, Tom Stoppard scriveva: «Oltrepassiamo i nostri ponti dopo esserci arrivati e ce li bruciamo alle spalle, e niente mostra il cammino percorso, tranne il ricordo dell'odore del fumo e la sensazione che una volta i nostri occhi hanno lacrimato».

I nostri padri li hanno attraversati con le nuove auto. I nostri nonni lo facevano con le prime, e i bisnonni con i carri trainati dai buoi. Il ponte è una necessità ma contiene anche un senso di unione tra genti. Costruiamo ponti e non muri, è stato lo slogan pre-Covid. Ma facciamoli bene, aggiungerei. E con significato.

Mi trovo sotto le arcate del vecchio ponte di Servigliano. Forse il più suggestivo di tutti. C'è una strada secondaria lungo il piano che, dalla periferia di Belmonte Piceno, conduce qui. È bella, è costellata di centinaia di alberi di frutta. La percorro a piedi. Così come a piedi la percorrono anche altre persone, specie nei giorni di festa. Peccato le auto, che sfrecciano veloci. Occorre essere molto attenti. La lentezza non è data. E la velocità impedisce di cogliere i dettagli.

Il vecchio ponte è di mattoni realizzati nelle nostre fornaci. Le arcate sono possenti. Mi fanno pensare al lavoro di centinaia di operai. Il lavoro! Sono costruzioni di circa due secoli fa. Non danno l'idea della fretta. La danno invece della consistenza e, se volete, della bellezza. A dieci metri nemmeno, sorge l'altro, quello in cemento armato, realizzato negli anni dell'Italia del boom. Pilastri cilindrici che salgono a sostegno del piano stradale. Un brutto manufatto, costruzione orrenda a confronto con l'altra. Time is money è stata la legge degli ultimi decenni. Soldi e grigiore.

Ho consigliato alle mie nipoti di lasciar perdere i compiti per l'estate e leggere invece “Momo” e “La Storia infinita”, Michael Ende autore di entrambi. Momo, cioè la bambina senza genitori, scappata dall'orfanotrofio, che resiste ai Signori Grigi, agenti della Cassa di Risparmio del Tempo, che il tempo lo vogliono succhiare all'umanità risparmiando sul bene. “La Storia infinita” dove Atreiu e Bastiano Baldassarre Bucci, incontratisi a Fantàsia, riscoprono il gusto e il bisogno di sognare, e riprendono a coltivare i propri desideri. Coltivare la speranza, che muove il mondo.

Perché, rinunciando a sperare, i sogni si dissolvono e il Nulla avanza. Ed il nulla, dice Mork, il lupo mannaro, è il vuoto che ci circonda. L'effimero, l'insensato, il vacuo.

Senza sogni e desideri non si vive: si diventa succubi del potere.

Quei ponti mozzati mi hanno fatto pensare al presente raggomitolamento della nostra Terra di Marca. Un ripiegamento esistenziale, civile, politico, amministrativo. Una rassegnazione. Un graduale spegnimento di energie. Ma sotto sotto ardono altre braci...

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Adolfo Leoni